Utilizzo di social network e chat durante il lavoro: quali sono le possibili conseguenze?

Un lavoratore che usa i social network e app di messaggistica durante l’orario lavorativo rischia il licenziamento?

La risposta, in alcuni casi, può essere affermativa; le sentenze a favore dei datori di lavoro si sono moltiplicate negli ultimi anni.

Vediamo di approfondire questo importantissimo tema.

 

Uso della connessione internet aziendale

Innanzitutto (anche considerando quanto espresso dal Garante Privacy nel proprio provvedimento del primo marzo 2007 “Lavoro: le linee guida del Garante per posta elettronica e internet“) è auspicabile che il Regolamento aziendale riporti i limiti entro il quale è possibile usare gli strumenti aziendali in dotazione per scopi personali e se è consentito o meno l’uso di dispositivi personali durante l’orario lavorativo.

Con sentenza del 15 giugno 2017, n. 14862, la Suprema Corte di Cassazione ha sancito la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente per abuso della connessione internet dal PC assegnatogli in dotazione dall’azienda.

Il lavoratore era stato sorpreso a navigare su internet dal computer aziendale per fini strettamente personali, non in modo sporadico od eccezionale ma, al contrario, del tutto sistematico: nell’arco di soli due mesi lo stesso dipendente aveva infatti effettuato ben 27 connessioni, della durata complessiva di 45 ore.

Lo stesso discorso vale per l’utilizzo della connessione internet usando il telefono personale: se l’utilizzo può portare a rischi per la produttività individuale e conseguentemente danni economici per l’azienda.

Il falso profilo per capire se il lavoratore passa troppo tempo su Facebook

Ha fatto notizia il caso in cui un datore di lavoro, dopo aver scoperto che un suo dipendente trascorreva su Facebook il suo tempo durante l’orario lavorativo ha deciso di creare un profilo falso per avere prove per licenziarlo. Il lavoratore ha iniziato ad trattenere una conversazione con il finto profilo, cadendo così in trappola.

Il caso è passato in due tribunali diversi prima di approdare in Cassazione. Questo perché, in un primo momento, i controlli occulti del datore di lavoro sono stati considerati illegittimi.

La Corte di Cassazione ha infine decretato la validità del licenziamento. La creazione dell’account falso è stata infatti considerata atta a porre fine a una condotta che metteva a rischio regolare funzionamento e sicurezza dell’impianto a cui era addetto il lavoratore.

Fino a che punto questo comportamento del datore di lavoro è legittimo?

Al fine di gestire al meglio futuri casi di questo tipo, i Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito i limiti entro i quali è concesso vigilare sull’operato dei dipendenti con dei controlli mirati.

Tali controlli, per poter essere considerati legittimi, devono mirare a tutelare beni del patrimonio aziendale, o impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti. Sono invece da considerare vietati tutti quei controlli preventivi, cioè che puntano a verificare il puntuale svolgimento dell’attività lavorativa.

Gli accertamenti da parte dei datori di lavoro devono essere fatti sempre secondo modalità che non siano eccessivamente invasive. Sopra ogni cosa deve vigere il rispetto delle inviolabili garanzie di libertà e dignità dei dipendenti.

 

Sfogarti su Whatsapp potrebbe farti perdere il lavoro

I messaggi Whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari della chat.

Sono moltissimi i casi in cui messaggi testuali o vocali di Whatsapp vengono usati come prova in tribunale.

Fra i casi più famosi, in cui ha prevalso il datore di lavoro, ricordiamo:

  • Tribunale di Fermo, decreto 1973 del 2017 – Il dirigente di un’azienda manda alla moglie dell’amministratore unico un messaggio vocale con toni ostili riguardante l’azienda.
  • Tribunale di Bergamo sentenza del 7 giugno 2018 n. 424 – Un socio lavoratore viene licenziato poiché ha tentato di boicottare l’attività produttiva di una cooperativa, fomentando forme di protesta anche da parte degli altri soci
  • Tribunale di Vicenza sentenza del 14 dicembre 2017 n. 778 – Attenzione allo “spione”: se un collega o un’altra persona che ha accesso ad una chat comunica al datore di lavoro insulti riferiti a lui o all’azienda, la conversazione può diventare una prova documentale a suo favore. E’ comunque bene ricordare che strumenti come Whatsapp sono difficilmente controllabili. Uno screenshot e invio di troppo e la nostra conversazione potrebbe essere disponibile ad una quantità indefinita di utenti, datore di lavoro compreso.

Proprio perché Whatsapp è considerata una prova documentale valida, è possibile usarlo per comunicare l’assenza per malattia: è un documento scritto e il suo invio potrebbe essere paragonato ad una raccomandata A/R, poiché la “doppia spunta” grigia e blu dà una chiara indicazione su data e ora di invio, consegna e lettura.

 

Galeotta fu la foto al mare

Se la realtà rappresentata dai social è molto diversa da quella raccontata al datore di lavoro può scattare il licenziamento: non sono rari i casi in cui il dipendente, che dovrebbe essere a casa sotto malattia con i vincoli imposti dagli orari di visita fiscali, posti una foto che lo ritrae al mare o impegnato in attività che lo portano lontano dalla propria abitazione.

 

Sii fedele alla tua azienda anche mentre non stai lavorando

E’ bene tenere a mente che il dipendente è legato all’obbligo di fedeltà nei confronti dell’azienda: l’articolo 2105 del codice civile “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio” impone esplicitamente al prestatore di lavoro di non realizzare determinate condotte.

Diffamare o divulgare informazioni non consentite è rischioso, e non solo dal punto di vista civile, ma anche penale: in alcuni casi è prevista la reclusione fino ad un anno.

 

Il controllo del lavoratore secondo Jobs Act e GDPR

Articolo 88 GDPR

L’art. 88 del regolamento europeo stabilisce che gli Stati possono emanare regole particolari atte a garantire la protezione dei diritti e delle libertà dei dipendenti durante i trattamenti dei dati nel contesto del rapporto di lavoro. Questo può avvenire tramite accordi collettivi o disposizioni legislative. Il GDPR prevede, quindi, che le attività di controllo del lavoratore siano svolte in un contesto di trasparenza e di adeguata protezione dei dati personali.

Il controllo del datore di lavoro, e in genere il trattamento di dati del lavoratore, può, infatti, avvenire in una molteplicità di fasi: valutazione candidati e assunzione, valutazione delle prestazioni lavorative, pianificazione ed organizzazione della prestazione lavorativa, salute e sicurezza dell’ambiente di lavoro, protezione dei beni del dipendente, conclusione del rapporto di lavoro.

Il Jobs Act e gli strumenti di lavoro

In Italia la regolamentazione in materia è dettata dal D. Lgs n. 151 del 14 settembre del 2015 (Jobs Act) che ha riscritto l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Il Jobs Act ha stabilito un regime diverso a seconda del tipo di strumento:

  • strumenti che consentono il controllo del lavoratore(es. videosorveglianza);
  • strumenti di lavoro (personal computer, smartphone).

L’installazione di impianti audiovisivi e altri strumenti dai quali deriva anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è di norma vietata, a meno che non ricorrano due condizioni:

La novità della riforma è data dal secondo comma dell’articolo 4, il quale prevede che le garanzie non si applicano agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (es. smartphone, tablet, personal computer), e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. In tali casi l’installazione non richiede alcun accordo sindacale.

 

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